Daniele Tambalo

“KINTSUGI: TRASFORMARE LE CICATRICI IN BELLEZZA” di Daniele Tambalo

Il kintsugi è un’antica arte giapponese che consiste nel riparare oggetti di ceramica rotti unendo i pezzi con una lacca speciale cosparsa di polvere d’oro, argento o platino. Piuttosto che nascondere le crepe, il kintsugi le valorizza, creando un oggetto unico e prezioso, metafora della resilienza e della capacità di trasformare le ferite in qualcosa di bello e forte.

La tecnica del kintsugi potrebbe essere stata inventata intorno al XV secolo, quando Ashikaga Yoshimasa, ottavo shogun dello shogunato Ashikaga, dopo aver rotto la propria tazza di tè preferita la inviò in Cina per farla riparare. Purtroppo, le riparazioni all’epoca avvenivano con legature metalliche poco estetiche e poco funzionali. La tazza sembrava perduta, ma il suo proprietario decise di ritentare la riparazione affidandola ad alcuni artigiani giapponesi, i quali sorpresi dalla tenacia dello shogun nel riavere la sua amata tazza, decisero di provare a trasformarla in gioiello riempiendo le crepe con resina laccata e polvere d’oro.

Il kintsugi suggerisce paralleli suggestivi. Non si deve buttare ciò che si rompe. La rottura di un oggetto non ne rappresenta più la fine. Le sue fratture diventano trame preziose. Si deve tentare di recuperare, e nel farlo ci si guadagna. È l’essenza della resilienza. Nella vita di ognuno di noi, forse, si deve cercare il modo di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di crescere attraverso le proprie esperienze dolorose, di valorizzarle, esibirle e convincersi che sono proprio queste che rendono ogni persona unica, preziosa.

Ricordiamo, quindi, un tempo in cui la giovinezza era intatta, fragile come porcellana appena smaltata.

Ma, dopo questi ricordi sognanti, sono arrivati i momenti della frattura.

Un tempo lungo, stratificato, a volte taciuto:

è l’infanzia spezzata,

l’adolescenza attraversata da paure che non avevano nome,

la maturità vissuta nel tentativo di ricomporsi.
È stato lo sguardo che si abbassa, la parola che non si dice, la mano che ferisce, spesso senza neppure rendersene conto.
È stato il patriarcato incarnato nei gesti più piccoli, nelle abitudini normalizzate, nei ruoli imposti e mai discussi.
È stato il tempo in cui la donna doveva reggere, tacere, perdonare.

Ma arriva il momento della consapevolezza.
È il momento in cui la crepa diventa visibile, il momento in cui non si può più far finta che il vaso sia intatto.
È la fotografia che non nasconde ma rivela, che non consola ma costringe a guardare.
È il tempo in cui anch’io mi  interrogo sul mio ruolo, sul mio sguardo, sul mio essere uomo in un sistema che per troppo tempo ha parlato del femminile solo per possederlo o definirlo.
È la  fotografia che si fa gesto di responsabilità, di ascolto, di alleanza.

E rimane l’oro nelle ferite: non come ornamento, ma come memoria viva; non come riparazione completa, ma come atto di permanenza.
Rimane il segno di ciò che è stato infranto, e che non si può né si deve dimenticare.
Rimane la traccia di un dolore trasformato in forma, di una ferita che diventa linguaggio, testimonianza, narrazione.
Rimane il volto di una donna che ha attraversato la notte e continua a guardare avanti – nonostante tutto, e forse per questo – con la forza ostinata di chi ha conosciuto la fragilità e ha deciso di non nasconderla più.

Kintsugi è ciò che resta dopo la rottura.
Non la fine.

Non la guarigione.
Ma la possibilità di stare, insieme, dentro la crepa.

Ringrazio, infine, mia moglie che si è prestata a essere fotografata, mettendo in luce la sua resilienza e le sue fragilità, permettendomi di capire che anch’io sono parte di questo modo di pensare e di agire.